Le immagini che in questi mesi ci hanno raccontato il coronavirus in TV, sui giornali e attraverso i canali di internet sono senza precedenti.
Lo spettacolo, per la maggior parte di noi, è stato soprattutto mediato a causa delle condizioni di isolamento imposte dalla quarantena messa in atto nella maggior parte degli stati del mondo, mentre ad oggi risultano essere solo .
Le immagini di morte e disperazione, di sofferenza, le colonne di bare infinite portate via dall’esercito come quelle che abbiamo visto da Bergamo, davanti all’ospedale Giovanni XXIII, non provenivano questa volta da un lontano fronte di guerra - dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq o da chissà quale paese dimenticato dell’Africa. Venivano da casa nostra. Le prime soprattutto dall’Italia, poi dalla Spagna, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito.
E non è ancora finita.
Il fotogiornalista Sergio Ramazzotti dell’agenzia italiana , i cui collaboratori continuano a documentare la crisi del coronavirus in Italia, parla di un senso di straniamento. Questo deriva dal fatto che “oggi il mio orizzonte temporale coincide con quello delle persone contro i cui volti sono costretto a puntare l’obiettivo”, spiega, riferendosi alle decine di storie che ha documentato dai diversi angoli del mondo colpiti da guerre, crisi umanitarie e carestie, normalmente lontani da casa. Come la loro, la sua “prospettiva futura” è al momento “molto poco chiara, senza una vera e propria linea temporale definita in cui potremo uscire dal tunnel”.
Ci sarebbe stato un giorno in cui, se il fotogiornalista fosse riuscito a portare a casa la pelle, tutto ciò avrebbe avuto fine
Ramazzotti, anche giornalista e scrittore, ha una lunga carriera alle spalle e quella del coronavirus non è la prima crisi sanitaria che si trova a raccontare. Nel 2014 ha in Liberia, Africa. Una situazione sicuramente più tragica rispetto a quella che stiamo vivendo, visto che “il tasso di mortalità allora per l'ebola era vicino al 95%”, racconta il fotografo, ma per certi versi è anche simile.
“Certe immagini mi tornavano alla memoria ma con una differenza sostanziale, ovvero lo straniamento. Una sensazione di irrealtá e di profondo disagio”, proprio perché questa volta si è trovato a documentare la tragedia letteralmente sotto casa.
La Lombardia, dove Ramazzotti vive e dove si trova anche l’agenzia fotogiornalistica Parallelozero che ha contribuito a fondare, è stata infatti al centro della tragedia italiana.
Come è stato quindi raccontare una tragedia, come quella del coronavirus, a casa propria?
“Chiunque, come me, sia stato abituato per lungo tempo a documentare le sofferenze di essere umani lontano dalla propria terra, alla fine in queste situazioni di degrado e profondo sconforto trovava sempre una consolazione nel fatto che lui, il fotogiornalista, prima o poi ne sarebbe uscito (…) sarebbe tornato alla sicurezza del proprio paese.”
Ma questa volta non è stato cosi, perché la tragedia del coronavirus si è consumata, e ancora lo sta facendo, anche in Italia.
In molti di noi ormai, le strazianti fotografie o immagini televisive provenienti da paesi in conflitto sortivano ben poco effetto. Quante volte, sulla nostra pagina Facebook, ci siamo trovati a scorrere velocemente tra le decine di post, senza soffermarci a guardare immagini di morte che arrivavano da guerre lontane? Quante volte, quando ci passavano davanti agli occhi nel TG della sera immagini di devastazione, mentre insieme alla famiglia eravamo seduti a consumare la nostra cena, ci siamo voltati dall’altra parte pensando “che barba, la solita storia”? E quante volte abbiamo continuato a sfogliare i giornali nella sala d’attesa del medico, magari un po' annoiati, con le fotografie di tragedie pubblicate tra una pubblicità e l’altra?
“Noi ci siamo assuefatti a quel tipo di immagini, è questa la nostra malattia”, secondo Ramazzotti. Ma ad un certo punto ci siamo dovuti fermare perché in quelle facce ed in quegli occhi ci potevamo riconoscere anche noi.
La morte stava bussando alla nostra porta, anzi era già entrata dalla porta posteriore e si era seduta nel nostro salotto
Un’immagine vale più di mille parole. Ed un’immagine “deve necessariamente tirare un pugno nello stomaco”, secondo Ramazzotti.
“Perché improvvisamente", si chiede, "quei giornali che in Italia non volevano pubblicare le foto dei morti ammazzati in guerra, perché entravano in conflitto col principio che bisogna assecondare le esigenze dell’investitore pubblicitario e poi quelle del lettore, hanno deciso di pubblicare delle immagini crude in cui c’erano dei connazionali che morivano? Perché ci siamo resi conto che la morte stava bussando alla nostra porta, anzi era già entrata dalla porta posteriore e si era seduta nel nostro salotto”
Le persone in quelle fotografie erano molto più simili a noi di quanto non lo fossero mai state prima di allora. Ci siamo riconosciuti. E questo ci ha fatto molto male. “Oggi siamo costretti ad aprire gli occhi e vedere queste immagini di connazionali che muoiono perché non possono più respirare e ce li abbiamo dietro casa.”
Viviamo in un mondo malato, aggiunge ancora Sergio Ramazzotti.
"Io definisco malato un mondo che disconosce e volta la faccia di fronte agli orrori delle guerre che pur essendo lontane spesso noi abbiamo contribuito ad alimentare o a far scoppiare” e la cosa più terribile è che “siamo disposti a pagare un biglietto per andare al cinema a vedere due ore di ammazzamenti, uccisioni efferate, atrocità e sangue versato e tutto ciò lo chiamiamo intrattenimento”
Ad oggi, secondo i dati ufficiali, le vittime di coronavirus nel mondo sono , e purtroppo il numero è destinato a salire. “Io piango per i morti del coronavirus", conclude Sergio Ramazzotti, "ma, al tempo stesso, mi dico: chissà che queste terrificanti immagini non abbiano contribuito, nella testa dell’opinione pubblica, a marcare un confine molto più netto di quanto non fosse fino all’altro ieri fra la fiction e la realtà".
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